Vicende familiari s’intrecciano con storie di carcerati, filtrate attraverso i ricordi di una bambina, figlia del custode di una fatiscente prigione del Sud negli anni ’50. Tutti i personaggi vivono “dietro le sbarre”, quelle reali della galera, o quelle invisibili della miseria e del male oscuro, del pregiudizio e dell’ignoranza. Ma la piccola, anziché smarrirsi tra le passioni tristi di chi incontra dentro e fuori dal carcere, ne è attratta e le attraversa senza imbarazzi né turbamenti, forte della sua gioiosa curiosità e riparata dalla propria innocenza. Tale approccio di straordinaria serenità al mondo degli adulti le consentirà di entrare a farne parte con una precocità pari al suo candore. Potrà, quindi, condividere il ciarlare sboccato delle allegre vicine, la compagnia silenziosa delle serve spossate, le confidenze maliziose delle apprendiste sarte, le spiate furtive alla porta della donna che “vende l’amore” agli uomini del paese, le testimonianze agghiaccianti delle zie su arcane presenze a casa dei nonni, le informazioni su magare e magarìe, e persino i racconti di zio Nicola Manonera, che espone fatti feroci del suo passato mafioso come fossero fiabe. La levità con cui la piccola “carceriera” riesce a passare indenne su un terreno accidentato e spesso scivoloso come questo, conferisce leggerezza persino alla narrazione delle vicende più cupe. I personaggi sono tanti, e quasi tutti appartenenti alla schiera degli invisibili e dei senzavoce; ognuno è portatore di una storia diversa ma solo apparentemente slegata dalle altre. A tenerle insieme, infatti, in una sorta di “Cunto de li cunti”, concorre l’unità di visione che tutte raccoglie in una cornice comune: l’appartenenza al medesimo ambiente, nei cui valori ogni singolo si riconosce. Anche la posatezza del linguaggio è legame che fa delle tante storie un unicum; come pure la contemplazione elegiaca del passato, che accende improvvise luminosità e stempera vaporose penombre.